Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)
Lett
z.
i ogni sentimento, il fece cadere, come l?uomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il sonno e come n
nferno si fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione, la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando,
e diffusa per li membri indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle virtú anima
rum, placidissi
cura fugit, qu
s mulces, repara
ente ne scrive Seneca tragedo, in tr
que o d
orum, requ
anae mel
atris genu
ae languid
cens fals
idem pessi
erum, por
ies noctis
egi famul
essum lenis
Leti gen
m discere m
scrive la casa, la camera e il letto e la sua fam
onte?, e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in questo luogo intende l?autore, percioché nel c
r fuori e queste di ritenerle, avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle s?accendono, e, per quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá, ch?ella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si truova esser piú
esto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché non solamente l?occhio, ma ciascun altro senso n?è incerto di sé divenuto. ?Intorno mossi, Dritto levato?: in questo dimostra l?autor
ente canto mostrato: ?Che tuono accoglie d?infiniti guai?, cioè un romore tumultuoso ed orribile simile a un tuono. ?Oscura?, all?apparenza, ?profonda era?, all?esistenza, ?e nebulosa?, per la qual cosa, oltre all?oscuritá, era noiosa agli occhi; ?Tanto ch
ra delle due maniere de? predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda quivi: ?Non lasciavam l?andar?, ecc. Nella prima parte l?autore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti di sopra dette, e pone de
l vero che l?uomo impallidisce per l?una delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e l?altre evacuazioni, le quali vanno a t?rre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú,
avanti ed ha? mi fatto vedere di menarmi salvamente, ?paventi?, cioè hai paura, ?Che suogli al mio dubbiare esser conforto?? sí come nel
colora, ?Quella pietá?, cioè compassione, ?che tu per téma?, cioè per paura, ?senti?, cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo: p
pigne?-a dover andare. ?Cosí si mise?, procedendo, ?e cosí mi fe? entrare?, seguendolo io,
o gonfiare d?intorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá dell?angoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: ?Che l?aura eterna?, in quanto non
á che perfettamente potesson parlare (e questa è l?una delle due maniere di genti, delle quali dissi che l?autor trattava in questa parte), ?e di femmine e di viri?, cioè d?uomini (e questa è l?altra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali una medesima cosa direi loro essere e gl?infanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice: ?D?infanti e di femmine e di viri?, non mi togliesse da questa opinione. E la
uello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che l?uditore addomandar dovea, e dice: ?Or vo? che sappi, avanti che piú andi, Ch?e? non peccaro?, questi spiriti che tu vedi qui; ?e s?egli hanno mercedi?, cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, ?Non basta?, cioè non è questo bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, ?perch?e? non ebber battesmo?. E questo n?è assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: ?Amen, amen, dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Sp
Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono de? comandamenti dati da lui al popol suo, ne? quali, ben intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. ?E di questi cotai?, cioè che dinanzi al cristianesimo furono, ?so
venit iam ca
gro saeclorum
irgo, redeunt
enies caelo d
o), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che ?bisognava c
atica e noia importabile l?ardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo ch?ella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione. ?Gran duol mi prese al cuor quando l?intesi?, sí per Virgilio, e sí ancora ?Peroché gente di molto valore?, stati intorno agli esercizi temporali, ?Conobbi?, non qui, ma
esta, cioè che fatta fu per la venuta di Cristo, alcun altro n?uscí mai: quasi per questo voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che, se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli s?ingegnerebbe d?adoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a salute.] ?Comincia? io, per volere esser certo Di quella fede, che vince ogni errore?, cioè per sapere se quello era stato che per la nostra fede n?è porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura n?è scritto, son nondimeno di quegli che stimano potersi dell
o alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè ?Quando ei vidi venire?, in questo luogo, ?un possente?, cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice ?possente?, percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo,
rmentato, nostro Signore non del capo né de? piedi, ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:-Questa è osso dell?ossa mie, e per costei lascerá l?uomo il padre e la madre, ed accosterassi alla moglie.-La qual?è tratta dal suo costato, per darne ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dell?uomo, l?avea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e guerra senza pace e senza triegua, come l?odierne mogli odo che sono, ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al lor piacere, ma del frutto d?uno albero solo, il qual v?era, cioè di quello ?della scienza del bene e del male?, s?astenessero, percioché, se di quello gustassero, morrebbero: e quindi
?è dunque l?anima perpetua, e ?l corpo mortale? Dirò allora l?anima essere stata da Dio composta di materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del semplice elemento della terra, senza alcuna mistura d?altro elemento, sí come d?acqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura dell?uomo, fu adunque fatta del limo della terra, avente alcuna mistura d?acqua. Non che io non creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le cose, ma la commistione de? corpi ne mostra quegli essere stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva l?anima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa corru
in, per avarizia, quando eran per far sacrificio, d?eleggere le piú cattive biade, o che avessero le spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva,
?l crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta l?arca, la qual notava sopra l?acque, sopra le montagne d?Ermenia, e non movendosi piú per l?acque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra l?arca, mandò fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo d?ulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dell?arca, fece sac
quale il nominò Moisé, quasi ?tratto dall?acqua?, e a modo che figliuolo se l?adottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, percioch?egli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se n?andò in Madian, e quivi co? sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo d?Israel della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che accattar potessero dagli egizi, e? prendessero e seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in tante s?aperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come passati f
rtando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ?l coltello in mano, n?andò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento d?Iddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchised
il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ond?egli meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie. Racquistò l?arca foederis, la quale al popolo d?Israel era stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzi
Esaú fuggito s?era, sí come nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quell?uomo esser vinto, venendo l?aurora, disse quell?uomo:-Lasciami.-Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso
i furono dodici, acquistati di quattro femmine: e da? quali li dodici tribi d?Israel ebbero origin
l: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gl
inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto de? granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio d?etá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odo
ua beatitudine. ?E vo? che sappi che dinanzi ad essi?, cioè innanzi che costoro beatificati fossero, ?Spiriti umani non eran salvati;?-e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma, to
z.
questa parte fa l?autore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un caste
la selva tuttavia?; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: ?La selva, dico, di spir
sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dell?autore. ?Quando io vidi un fuoco?, un lume, ?Che emisperio? (emisperio è la mezza parte d?una spera, cioè d?un corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere)
discernessi?, per lo splendore di quel lume, ?in parte?, quasi dica non perciò appieno, ?Che orr
cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta ?arte?, in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma l?intelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come ?ogni tutto è maggiore che la sua parte?. Estolle adunque qui l?autore Virgilio nelle due di queste c
iene assincopare, e dire, per ?onoranza?, ?orranza?; ?Che dal modo degli altri?, li quali per infino a
izia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, de? quali l?autor domanda, sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono l?eterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
cosa per la bocca dell?uomo, o d?alcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. ?Fu per me?, cioè da me, ?udita?, cosí fatta:-?Onorate l?altissimo poeta?; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli
avevan né trista né lieta?. In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra l?autore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è de? maturi e savi uomini non mut
teria colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e d
ente di qual cittá esso natio fosse. è il vero che, per la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna d?esse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito
aei durabunt
do d?
se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, de? quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie de? greci e de? troiani infino alla morte d?Ettore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente l?Odissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori d?Ulisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude degl?iddii, il cui titolo non mi ricorda d?aver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane e? topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion degl?iddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, de? quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uo
, e, tra l?altre, essendo in Atene ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva scritto gl?iddii l?un contro all?altro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie degl?iddii Omero s?intendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio l?avrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo f
stata fortuna in mare, e però, non avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, s?erano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di que? vermini che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi ne? vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta de? pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sosp
e sue Quistioni tusculane scrive Tullio cosí di lui: ?Traditum est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non po?sin videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferar
mpo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio re d?Alba. Filocoro dice che egli fu a? tempi di Archippo, il quale era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano Omero essere stato avanti ch
z.
Ottavian Cesare, e fugli conceduto d?essere dell?ordine equestre, il quale in Roma a que? tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e singularmente usò l?amistá di Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella di Virgilio e d?alcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile de? versi lirici, il quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio libri Temporum d?Eusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici
ittá di Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo
ia est, gelidis
cies distat
vole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura
bar scribere,
re, dice, che piú volt
t:-Studium quid
llas ipse re
oma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto all?ordine equestre, il qu
a, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis, cioè de? dí ne? quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste e? dí solenni degl?iddii de? romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale è part
a relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d?un fiume de? colchi, il quale si chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni
gato, sí come egli scrive nel libro De tristibus, mostra
um duo crimina,
n Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno
idi, cur lumi
alcuna parte non iscrive, dice
ti culpa sil
sto peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie d?Ottaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezion
mani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno
equale all?Eneida; della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero de? poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico d?Omero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro d?Orazio o di Persio o di Giovenale, con quello de? quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come ch?e? si trattasse, maravigliosa eccellenza d?ingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lu
questi quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori d?Ulisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e tras
utore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender per la ?convocazione? i ?convocati?. ?Di que? signor?, cioè maestri e maggiori, ?dell?altissimo canto?, cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole segu
aver fatto: la qual cosa del tutto non è da credere, percioché l?autore non l?avrebbe scritto, né è verisimile il dottore farsi beffe de? suoi uditori; conciosiacosaché nell?ingegno de? buoni uditori consista gran parte dell?onor del dottore; ma senza alcun dubbio puose l?autore quella parola ?sorrise? avvedutamente, e la ragione può esser questa. è il riso solamente all?umana spezie conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché l?uomo, non solamente parlando, ma ancora per quello mostri l?intrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. è il vero che questo riso non in una medesima maniera l?usano gli stolti che fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte un riso grasso e sonoro, il qual
esto tra cotanto senno?, cioè tra? cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa parola l?autor di iattanza, dicendo ad alcuno non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna vol
s, fama super
ncora molto per fama conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in terra lavati i piedi a? suoi discepoli, tra l?altre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste parole:-?Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché io sono?.-Direm noi in questo Cristo aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che era toglitore de? peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre: anzi cos
discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da lui, la qual molto pende dall?autoritá d?esso. E perciò qui l?autore, dovendo in questo suo trattato poe
e è bello?, cioè onesto, ?Cosí come?, era bello, ?il parlar?, di quelle cose, ?colá dov?era?. Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano d?indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che l?autore il volle tacere? ?Venimmo a piè d?un nobile castello?, cioè nobilmente edificato, ?Sette volte cerchiato d?alte mura, Difeso intorno?, cioè circundato, ?d?un be
uce dell?occhio soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli cuoprono, dimostrano l?animo loro esser pesato ne? consigli, e non corrente nelle diliberazioni. ?Di grande autoritá ne? lor sembianti?, in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. ?Parlavan rado?, percioché nel molto parlare, se
t in medios, tu
, unde omnes lon
et venientum di
to?; percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, ?Sí c
, è contro a natura del luogo, e perciò si può comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. ?Mi f?r mostrati?, da quegli cinque poeti, ?gli spiriti magni?, cio
z.
molte giornate. L?altro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato il padre d?Elettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, c
unt humeros re
ici, sex tame
plexum sex hin
Marti concu
nen, et te, fo
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Merope tibi, S
facti sola
ctra Troiae s
te oculos opp
mare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. L?avere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento d?umido. Che esse abbiano nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta s?intende per lo elemento del fuoco e dell?aere, e se nell?aere umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si tem
e, oltre a questo, quella che in piú secoli è perseverata ne? suoi successori: percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano, figliuolo d?Elettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in Numitore, padre d?Ilia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo d?Agrippa Silvio, che de? discendenti d?Enea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E d?altra parte, secondo che alcuni si fanno a credere, essendo
ato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; a? suoi cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e giustissimo, est
a? quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevol
eso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, l?uccise, e spogliògli quelle armi, e, quasi d?Achille tronfando, se ne tornò con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, l?uccise. E tanto poté in lui
con lui, e similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi, sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato co? suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá sette ann
ia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo Enea avuta vittoria de? rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel
is populi vexa
ris, complexu
ret, videatque
um se sub lege
gno aut optata
diem, mediaque
recor
a forma d?Enea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi d?Enea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che n
seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine sempre s?ingegnò d?esser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande d?amici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con que? popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu negato l?un de? due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito s?era, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re d?Egitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto s?era, concedette il reame, quasi in guiderdone dell?adulterio commesso. Quindi n?andò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia, e Scipio
hé, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio, Lollia d?Aulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte l?altre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora l?amicizie d?alcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re de? mauri, e Cleopatra, reina d?Egitto, e altre. Né furon questi su
portasse; e Cotta poi in senato disse ne? libri sibillini trovarsi: ?li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re?; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima a? senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò gl?idi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stil
z.
fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza d?animo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furo
n bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui l?autore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in
giugnendosi per matrimonio co? popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dell?animo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, a? quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte d?uno animo cospirarono. E per forza d?arme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere co? vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua l?esercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, ch
ino fu re de? laurenti e figliuolo di Fauno re, de? discendenti di Saturno,
va Latinu
ga placidas in
nympha genitum
epi
secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo d?Ulisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino, ?Solis avi specimen?, percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (percioché la ragione de? tempi non procede, percioché Latino era g
nnantem
us tenui
tere essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re de? laurenti, ne? tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re d?Ardea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola d?Evandro re, fu sua moglie. Costui, secon
nte: e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femm
resero per partito d?andarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcun?altra; e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti d?arme e a campo; e di quindi n?andarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far quello che a buona donna e valente s?apparteneva di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dell?altre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli nell?anima la bellezza e l?onestá di lei, seco medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sen
itá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re e? figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata de? collazi n?andò a Roma, lasciando che l?un de? due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dell?innocente donna e ad odio de? Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e de? figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re e? figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú d?uno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu l?uno Bruto e l?altro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re e? figliuoli suoi a Roma, fattig
uesta donna è na
ogni congiugnimento di femmina, secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non dovere per l?etá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su l?aurora picchiò all?usc
intanto che, essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono, era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli l?animale, che sacrificar dovea, giá ferito, delle mani s
costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso da? parti e a cui fu l?oro fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come n
mi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intra? cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta de? seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
estro?, cioè Aristotile, ?di color che sanno, Seder?, cioè usare e stare, e quegli atti fa
venti anni. Per che, sí per l?eccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse:-L?intelletto non c?è, sordo è l?auditorio.-Visse appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, de? quali parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi: Etica, Politica ed Iconomica; né delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua Metafisica appare. E, brevemente, egli fu il principio e ?l fondamento di quella setta di filosofi, i quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano d?apporgli, cioè che egli facesse ardere i libr
appresso d?Arist
ora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto degl?intrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli ammaestramenti de? piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni tusculane: e in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oracolo dell?umana sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente Calcidio Sopra il primo libro del Timeo di Platone, e come Agostino nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama ?iddio di Socrate? in un libro che di ciò compose: il quale m
io me ti do; e ricordoti che io ti do piú che dato non t?ha alcun altro che qui sia; percioché non ce n?è alcuno che tanto donato t?abbia, che alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me t?ho dato, cosa alcuna non è rimasa.-Al quale Socrate umilmente rispose:-Eschilo, il tuo dono m?è molto piú caro che alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto m?hai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto fa? che tu abbi me per tuo.-Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dell?una delle due mogli che av
iú all?una che all?altra mostrasse; di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: ?Platone e Aristotile, e l?altra turba tutta de? savi uomini, piú da? costumi di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole?. Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai infermò, né parte d?alcuna infermitá sentí. Sostenne con gr
do esso fare, essendo giá d?etá di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò l?animo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi ch?egli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo:-Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia.-E, bevuto la venenata composizione, molte cose a? suoi amici, che d?intorno gli erano, parlò dell
z.
r opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza d?a
quasi da tutti quegli che a? tempi ch?e? romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villett
sí come piú degni filosafi
ò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse d?averlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era d?uno piú che l?usato accompagnato, e questo era un fanciul che ?l guidava: benché Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta d?Asclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque de? principi delle cose tenesse un?opinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dall?uno de? due principi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi ?caos?, il che tanto suona quanto ?confusione?; e di questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione d?alcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava ?odio?, in quanto le cose che nascevano, dal l
o tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e de? templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea l?aere fresco senza punto di sole; e il
Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe al presente lavare coteste lattughe;-quasi volesse dire:-Tu averesti de? fanti e de? servidori, che te le laverebbono.-A cui Diogene subitamente rispose:-Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.-Altra volta, essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima di dipinture e d?oro e d?altre care cose, e non che le mura e? palchi, ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, s?accostò a colui che menato l?aveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che presenti erano, dissero:-Perché hai tu fatto cosí, Diogene?-A? quali Diogene prestamente rispose:-Percioché io non vedeva in questa casa parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.-Oltre a ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dell?Ira, avvenne che, leggendo Diogene del vizio dell?ira, un giovane gli sputò nel viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando l?ingiuria, niun?altra cosa disse, se non:-Io non m?adiro, ma io dubito se sará bisogno o no d?adirarsi.-Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno sputo ben grasso, ne
tutte guaste e occupate da? pruni e da malvage piante, disse:-Se io avessi voluto guardar queste, io avrei perduto me.-Questi nella morte d?un suo figliuolo, assai della sua fortezza d?animo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:-Niuna cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché
di moto della stella la qual noi chiamiamo ?tramontana?, e che da essa preso dimostrò l?ordine, il quale ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua opinione che l?acqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra. E, percioché esso fu de? primi filosofi di Grecia e, avanti che il nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato ?savio?, come sei altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo da? pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola
raccontar si possa; quantunque alcuni dicano lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale per avventura allora in quella parte cantava, per la q
a oscuritá di parole e di sentenze scritti da lui, che pochi eran coloro li quali potessero de? suoi testi trar frutto; per la qual cosa fu cognominato ?tenebroso
quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. De? quali Zenone alcuno non ne nominò
co, il quale, per forza di tormenti, s?ingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati, disse sé essere disposto a manifestargli quello che es
e dico?. Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse, non lessi giammai; e di lui niun?altra cosa ho che dire, se non che esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di ci
rpente, il quale era nascoso nell?erba; per che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sé, ma ancora facesse all?anime de? dannati dimenticare la pena de? lor tormenti, Proserpina, reina d?inferno, mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa, senz
nfino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati ?orfichi?, ne? quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi da? cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva f
ibri, sì come quello De officiis, Delle quistion tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus, De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto dell?ordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio da
ici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro d?Ercole; e fu a? tempi di Bacco, chiamat
a moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; a? prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito ne? suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore d?un famoso filosofo in que? tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, sí come il libro De beneficiis, quello De ira, quello De clementia a Nerone, quello De tranquil
glie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, co? suoi consigli, l?animo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa senten
non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale Nerone domandò se Seneca s?apprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli s?eleggesse la morte. Il quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno de? centurioni, che gli dicesse l?ultima necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò Seneca, voltosi a? suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in fermezza d?animo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser sa
le Seneca aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che
assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché tra? dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui da san Girolamo in libro Virorum illustrium, nel quale scrive cosí: ?Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus, et patruus Lucani p
sse, il quale i nostri santi chiamano ?flaminis?, non essendo rigenerato secondo il comune uso de? cristiani nel battesimo dell?acqua e dello Spirito santo, quell?acqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dell?umana generazione nella sua morte e nella re
z.
olo dodici, lui essere stato contemporaneo di Platone, e, percioché insino ne? nostri dí è perseverata la fama sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria
one di nostro Signore, cioè a? tempi d?Adriano imperadore, sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in que? tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrolago. Nella quale arte, a
venuto scienziatissimo, quella ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso d?Ippolito, figliuolo di Teseo, re d?Atene, che, fuggendo la sua ira, da? cavalli che il suo carro tiravano, spaventati da? pesci chiamati ?vecchi marini?, li quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, pe? luoghi petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui morto: per l?arte e sollecitudine di questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ogn?uomo perciò lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove s?era turbato che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta l?arte della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo De historia naturali, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nasc
simo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e d
ne?; ed in medicina fu scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al
quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella d?ogni altro filosofo preposta. ?Che ?l gran comento feo?: sopra i libri d? Aristotile. Ed è intra lo ?scritto? e ?l ?comento?, cheuomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli compuose De arte amandi, dá egli pessima e disonesta dottrina a? lettori. Appresso, è ancora di questi Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento d?Ilione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è gravissimo peccato. Ponvi similmente Ces
libro, l?autore quasi altra gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda che egli alcun de? nominati vedesse, né in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, s?intenda essere in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e gli altri
ne a procedere avanti, ?il lungo tema?, di voler discrivere l?universale stato degli spiriti dannati, di que? che si purgano e de? beati: ?Che molte volte?, non solamente pur qui, ma ancora altrove, ?al fatto?, cioè alle cose che vedute ho, le quali sono
e di Orazio e degli altri, ?in due?, cioè poeti, in Virgilio e nell?autore, ?si scema?, cioè rimane scema. ?Per altra via?, che per quella per la quale venuti eravamo, ?mi mena ?l savio duca?, Virgilio, ?Fuor della cheta?, aura; percioché, come assai è nelle