Fino a Dogali
il libro sulla milizia era lo studio del miglior mezzo per conquistarlo. Ma questo sogno non prese mai nella mente del Macchiavelli i contorni più o meno precisi
i le pagine più belle andò a morire in un troppo vantato
suo libro che è un lungo dialogo immaginato tra Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonte, Battista della Palla e Luigi Alamanni nel 1516, quando il Colonna ritornò a Firenze dalla guerra finita di Lombardia. La forma artistica del libro rivela l'indole dello scrittore: le sue i
o le compagnie di ventura, ma di questo errore così pieno di problemi storici invece di cercare la spiegazi
e l'educazione della gioventù alla romana. A questo punto, siccome uno degli interlocutori domanda perchè gli antichi ebbero maggiori virtù politiche e libertà dei moderni, Macchiavelli risponde: perchè erano repubblicani e pagani. Per lui il cristianesimo è ragione assoluta di decadenza politica; la differenza della individualità pagana e cristiana gli sfugge ancora. La sua poca stima della cavalleria e la grande importanza della fanteria sono idee romane: così pure la battaglia che dispone teoreticamente al terzo libro, nel quale si ride delle artiglierie. Nel quarto nel quinto e nel sesto ragionando dei movimenti dell'esercito e del suo alloggiamento, il Macchiavelli che di guerre non ne aveva
o della educazione guerriera, secondo la sua teoria l'uomo è sempre uguale e un cittadino del foro romano e un borghese del mercato fiorentino hanno le stesse attitudini; il cristianesimo, che aveva dieci secoli di guerre non interrotte, è per lui antimilitare e nullameno non cerca come controbilanciarne l'influenza; l'Italia non ha coscienza nazionale e tuttavia egli crede possibile riunirla in un esercito; vi sono armi nuove da fuoco, imperfette che non pert
come i romani per troppe ragioni d'indole e di civiltà, ragioni che l'Europa del cinquecento non avrebbe più avuto contro l'Italia. Il ritorno dell'ordine
ovava la maggiore attitudine della nazione d'allora alle armi, ma piuttosto un effetto delle guerre continue e delle compa
i Castruccio Castracane si chiude il ci
lli di Diogene Laerzio e di Diodoro Siculo, mescolando il vero all'immaginario, amalgamandovi in un ammirabile getto le gesta di Agatocle. Nel racconto breve ma letterariamente perfetto la figura del duca Valentino è sempre dietro a quella di Castruccio, il quale si muove nullameno con personalità tanto viva da far cre
iuravano coi francesi per cacciare i Medici, rimase a Firenze nel codazzo del cardinale Giulio, al quale ripropose il disegno offerto a Leone per il ripristinamento della repubblica. E nemmeno s'accorse che quegli ben più fino politico di questi, domandando tali disegni a tutti intendeva di saggiare la pubblica opinione, niente disposto a largheggiare di libertà con Firenze; chè anzi i più giovani ed ingenui frequentatori degl'Orti Oric
a favore di Firenze, per non perdere coll'incipiente protezione dei Medici la provvisione delle Storie e la calma necessaria alla sua vita di letterato. Impiegato e cliente subalterno, la fede della quale si vanta così spesso nelle lettere, non è che troppo spesso
blica. Spregiatori della cronaca, pur nella forma rispettandone la divisione per anni, costoro avevano mirato alla dignità classica solamente trasformando ogni minima scaramuccia in battaglia e vestendo tutti i personaggi alla romana. Quindi in essi non critica degli avvenimenti, non ritratti, non aneddoti ch
ma scrivendo egli pure in latino per dispregio della lingua volgare. V
nni e non fosse per anco entrato nelle pubbliche pratiche, analizzava già l'avvicendarsi dei partiti, metteva a nudo i caratteri, determinava le passioni degli avvenimenti. Imparziale coi Medici ammirava Savonarola, ricercava i documenti originali, esponeva le leggi, citava persino le frasi testuali delle ambascerie. Certo a lui pure sfuggiva la parte impersonale degli avvenimenti, troppo violentemente tirato dalle forti qualità della sua natura realista e politica; ma questo difetto in lui comune col Macchiavelli e col secolo, non era come nel suo rivale peggiorato dalle licenze di una fantasia teorizzante sui fatti e contro i fatti. Guicciardini aristocratico potè in seguito lasciarsi cogliere dalla passione della forma che era allora l'aristocrazia della letteratura, e mal sicuro nel gusto falsare il proprio giovane stile nell'imitazione ciceroniana; ma politico e storico nato non s
endo delle civili discordie, delle intrinseche inimicizie, e dei loro effetti, egli intendeva riparare all'errore ?perchè nessuna lezione è utile a coloro che governano quanto quella che dimostra le cagioni degli odii e dell
no vi si può dare carriera, l'innegabile originalità del suo proposito storico nel quale Guicciardini lo ha preceduto senza che egli lo sappia, non gli viene da una meditazione filosofica della storia, ma dalle tendenze del suo spirito e di tutta la sua vita. I grandissimi modelli antichi, Tacito e Livio, non sono più presenti al suo pensiero e non gli compariranno che ad intervalli per suggerirgli qualche fo
peggia troppo simile al duca Valentino nel Principe e come questi salvatore d'Italia, Teodorico re degli Ostrogoti. La solita esaltazione riprende il Macchiavelli che, pur copiando dal Bi
ioritura italiana e non ebbe quindi nè arte nè scienza nè filosofia nè religione veramente originale; la sua grandezza derivò dalla giurisprudenza e dalla politica. Poi nel franare dell'impero i barbari ruinando sull'Italia vi portarono e vi produssero altre differenze. Rotta l'unità romana, l'unità cristiana anche più universale ed astratta non poteva riunire l'Italia. La lotta ricominciò fra la Chiesa e l'Impero: quella malgrado tutte le proprie contraddizioni era per la libertà, l'Impero per la tirannia; l'infallibile istinto storico fece guelfo il popolo e ghibellina l'aristocrazia feudale. Il Macchiavelli lo nota ma non arriva a comprendere neppure confusamente la vera posizione e l'azione storica del papato nel medio evo. Il suo pregiudizio irreligioso lo trascina, la sua inettitudine alla filosofia e alla critica lo paralizza. Egli che considerava il popolo senz'anima come cera in mano al Principe legislatore, non poteva nemmeno sospettare che la nazionalità derivasse dalla unità delle coscienze individuali. Così gli sfuggono tutti gli elementi spirituali del cristianesimo, del quale si ostina a no
letterario troppo in essa ancora disuguale quantunque a certi punti singolarissimo, non contiene nessu
costretti a vivere nella città vi avevano portato colla ferocia dei costumi la crudeltà di un odio di razza. Il Macchiavelli, tratto dal suo bisogno di mettere sempre una causa drammaticamente personale ad ogni avvenimento politico, muove dal caso del Buondelmonti, ma più acuto del Villani che andava smarrendo il filo della grande contesa, s'accorge subito che dietro i Guelfi e i Ghibellini non stanno solo l'Impero e la Chiesa, bensì la feudalità e il popolo: l'una rappresentante la razza dei vincitori sovrappostasi alle ge
ione del Potestà: quindi narra rapidamente il ritorno dei Ghibellini, l'ingrossare continuo dei Guelfi, il mal ripiego della politica ghibellina per ottenere il favore del popolo aiutando la costituzione delle arti Maggiori e Minori, il magistrato dei Priori che affretta la rovina dei nobili, gli Ordin
a che dimenticando ogni proporzione nel quadro aggiunge episodi, inventa discorsi, s'allunga in considerazioni, drammatizza ogni circostanza per conchiudere alla terribilità dell'eccidio con una descrizione non meno terribile. In questo secondo libro, come nota egregiamente il Villari, sta il secreto della storia di Firenze; però se il Macchiavelli lo avverte a quando a quando e q
in sè stessa la storia; alla prima è bastat
ssamento delle arti Maggiori e della plebe, si direbbe che un'inconscia antipatia scoppi tra il fine politico borghese e il terribile politico del Principe. La presenza del Valentino turba ancora lo spirito del Macchiavelli al punto di fargli idealizzare la mediocre figura di Michele di Lando, docile strumento in mano di Salvestro, e di non lasciargli comprendere tutto il merito della politica di quest'ultimo così abile e paziente e sicura che nelle Storie Fiorentine non se ne era ancora e forse non se ne vide più l'esempio. Gl'istinti democratici trassero il Macchiavelli a trasfigurare Michele di Lando, come la politica di semplice intrigo, senz'armi e senza gloria troppo diversa da quella conquistatrice del Valentino, gli dispiacquero in Salvestro. Oramai nel Macchiavelli la teorica politica e la forma drammatica si erano talmente fuse che a lui stesso non riusciva più di separarle. D'altronde la sua avversione ai Medici, dai quali colla cacciata dalla Signoria e le conseguenti miserie aveva pur ricevuto quattro o sei tratti di corda, malgrado i riguardi
he non osava più parteggiare contro di lui pei Soderini in favore della repubblica. Nè con questo intendo rimbrottare aspramente il Macchiavelli di non essere stato un eroe, ma solamente di ribattere quegli apologisti che tirano a mostrarlo troppo maggiore nell'ingegno e nel carattere che veramente non fosse. Nel racconto della lotta suprema fra Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de' Medici si scoprono nel giudizio del Macchiavelli una falsità e una costrizione i
hiavelli che non solo scansa di giudicarlo, ma vi si rattiene da quelle considerazioni che false storicam
de dell'ultimo papa dei Medici. Poi divaga in altre guerre italiane. Valendosi dei Commentari di Neri Capponi, descrive il gran torneo militare fra Niccolò Piccinino al soldo del duca di Milano e Francesco Sforza generale della Lega, e neppure qui l'odio ai capitani di ventura abbandona il romanziere di Castruccio Castracani, che non s'accorge d'avere davanti due soldati, ai quali solo i migliori dell'antichità sono paragonabili. Almeno Francesco Sforza nel mutarsi di venturiero in capitano sembrerebbe a prima vista dovesse sedurre la sua immaginazione; senonchè il Machiavelli dimentica a questo punto tutta la sua ammirazione pel Valentino, politicamente un imitatore dello Sforza, per abbandonarsi ai propri istinti democ
ue contraddizioni aumentano ancora. Dopo avere attribuito arbitrariamente l'assassinio di Niccolò Piccinino ad un complotto tra Francesco Sforza e Ferrante d'Aragona, raccontando della congiura tramata contro Piero dei Medici, uomo meno che mediocre, ne travisa romanzescamente le circostanze per fare di lui un grande personaggio. Il medesimo ripete nell'altra congiura del Nardi e del Nerone a Prato contro Lorenzo e Giuliano, inventando l'episodio della voluta impiccagione del Potestà alla finestra del Palazzo e il suo discorso per liberarsene e la seguíta liberazione colla sconfitta dei ribelli. è strano l'oblìo non solo di ogni verità storica ma persino di ogni possibilità drammatica nei discorsi, che il Macchiavelli inventa tratto tratto secondo le bizzarrie de
e e diventò popolare per la profondità dell'ingegno politico: il suo cognome si mutò in nome a significare con terribile complessità tutto quanto la scienza, l'arte, la natura, la società possano in un uomo solo condensare di valore politico. Guicciardini nelle scuole e nella coltura comu
elli vi si accoppiano con troppo maggiore prevalenza dei primi. La materia vi è mal distribuita, non sicuri i fatti, non sinceri i giudizii, non ben tratte le conseguenze. Il loro disegno è così angusto che nulla vi cape: la vita vi si compone di battaglie consciamente falsate la più parte e di congiure drammaticamente e spesso falsamente narrate. Il periodo dei Medici vi è condotto in modo da non capirvi nulla. Un urto continuo d'istinti democratici, di
, tace per riserbo, chiude gl'occhi per paura; il Guicciardini coll'impassibilità, che l'altro consigliò sempre e non ebbe mai, ripensa la propria vita nella propria epoca e ne vede l'ordine, lo riproduce, lo analizza. Diplomatico di prima forza, intimo dei più grandi personaggi, per lui non ci sono secreti: senza opinioni morali e senza sogni patriottici vede subito nei fatti il loro significato immediato; conosce l'Europa quanto l'Italia; non ama nessuno, non ammira che sè stesso. Di questo difetto, rimproveratogli accortamente dal Ranke, trionfa però facilmente. Il proposito politico che nel Macchiavelli risulta da troppo eterogenea congerie di qualità filosofiche, scientifiche e artistiche è in lui espressione di una natura non d'altro capace e di null'altro occupata. Politico prima che storico non scrisse che quando non potè più agire. Ma nell'azione era riuscito altret
gni per lasciar loro la libertà necessaria allo storico; Firenze teatro ai maggiori mutamenti, primissima sede della gran contesa guelfa e ghibellina, centro dei migliori ingegni, e che condannata ad esaurire la vita di comune prima delle sue grandi rivali aveva anche minore coscien
tura e il mondo non fu più l'Europa e la stampa centuplicò le idee e alle tragedie cinquecentiste della passione successero i drammi del pensiero ricostituendo la spiritualità e l'intimità della vita, il Davila e il Bentivoglio assistenti colla impassibilità del
osi in varii generi, dalla commedia alla satira, dai canti carnascialeschi alla novella. In nessuno riuscì a sorpassare la mediocrità, se si eccettui la
hanno epopea; la loro religione e i loro Dei sono l'espressione del più volgare antropomorfismo: la loro anima è arida, ma il loro senno è sicuro quanto il loro coraggio. Hanno la casa e il governo. Siccome la fatalità li spinge sul mondo vi marciano e lo conquistano. La loro originalità è la politica e creano lo Stato: la loro filosofia è la giurisprudenza e stabiliscono la giustizia, la loro astrazione è la personalità dell'individuo e dello Stato. A contatto coi greci dei quali debbono assimilarsi e spandere le idee, la grandezza intellettuale di questi li soggioga di buon'or
'arte s'arrestò. Nel migliore e più vero periodo repubblicano mancò quindi la letteratura. Solamente allo sparire della civiltà nazionale sotto le molteplici tendenze ellenico-cosmopolite, la letteratura comparve a Roma manifestandosi grecamente in opposizione collo spirito nazionale; ma le esigenze della scuola vi sopraffecero gl'impulsi della natura, mentre l'imitazione anticipando sulla creazione atteggiava scuole e teatro antiromanamente e rivoluzionaria
entimento nella forma. Dopo di loro la commedia decade ancora: nè il sentimento nazionale, nè il costume politico, nè il carattere romano, nè l'epoca storica la consentivano. La scuola
l doppio senso della critica e dell'arte non v'era; l'individualità italiana forse troppo mista, senz'altra tradizione che il cosmopolitismo, scarsa nella fede religiosa, scema nella coscienza politica, colla vita troppo concentrata e contrastata da non potervisi mai affermare in una forma precisa, non potè ottenere in sè medesima la libertà e la condensazione necessaria alla commedia. Rappresentarsi significa ripensare, risentire sè medesimo nella individualità singola e collettiva con tanta forza e con tale chiarezza di visione da diventare sdoppiando
lior letterato a Plauto maggior artista. Si cominciò a tradurre e a rappresentare, le accademie pullularono. A Ferrara dove il romanzo cavalleresco amalgamandosi coll'erudizione classi
o pieno di erudizione, l'imitazione classica soffoca ogni spontaneità esaurendo l'azione in un puro gioco meccanico. Basti per esempio paragonare il suo Negromante col prete di Varlungo o col frate Cipolla del Boccaccio. La sua Cassaria
a, con un dialogo abbastanza vivo di frase per quanto strascicato nella forma. La sua maggiore originalità nella storia è rimasta la qualità e il grado del suo autore, p
a tutto l'accanimento di un patriottismo agli estremi, altri la denunciano come opera immorale che basterebbe da sola a disonorare l'epoca nella quale fu prodotta e
tare la sua migliore opera d'arte, in altra commedia, le Maschere, andat
tta nel 1512 ai giorni meno lieti del Macchiavelli: questa circostanza rivela sempre più l'animo dell'au
racconta i
tra un tal Ligurio, scroccone ammesso in casa Calfucci, al quale Callimaco promette danari se riesca a procurargli l'amore di Lucrezia. Il mezzo è questo. Callimaco si finge medico possessore di una ricetta, bevendo la quale Lucrezia resterà incinta, ma l'uomo che l'avvicinerà la prima volta ne morrà. Bisogna dunque pe
Lucrezia. Allora si mettono in gioco la mamma e il confessore che la persuadono. Si dispone lo stratagemma il quale riesce, gli am
ione e nella quale non trova né gli accenti del cuore nè le parole del vizio, lo dimostrano. Callimaco, mal disegnato, non è nè un innamorato nè un libertino: parla, si muove, si agita, sembra appassionato e non lo è; l'espediente al quale ricorre, non urta la sua coscienza d'innamorato e non sorride alla sua depravazione di dissoluto. Egli è vuoto sotto tutto quell'apparato d
il critico e il dialettico non sono in lui rattenuti dalla mano dell'artista. Nicia troppo imbecille arriva all'incoscienza e perde ogni interesse: egli, che non saprà mai la burla e non sarà mai al caso di scoprirla, le toglie ogni sapore; viene così a mancare il pericolo che non riesca, il pregio quando sia riuscita. La commedia non rivela nulla dell'intimità fra Nicia e la moglie, che possa fare vivo contrasto colle intenzioni di Callimaco: se Nicia è una caricatura, la quale non ha altra vita se non quella che la
e in un gesto impaziente all'ultimo atto. La resistenza che ella oppone alla madre, incaricata nel complotto di persuaderle la pozione, non erompe nè dalla coscienza nè dal temperamento: è
attribuitole dalla parte. Non sospetta della burla, non s'offende dell'espediente come non si era afflitta della posizione creata al
. Il terzo atto, che si apre con un monologo magistrale, ha subito una scena breve e stupenda. Frà Timoteo cicaleggia con una fante; il dialogo non potrebbe essere più vero, le due figure più vive. Macchiavelli deve averle colte nella vita o sorpreso qu
za, la schiettezza ribalda del frate, così ben disegnato nell'apertura dell'atto, non sono umane; non ha un dubbio sulla secretezza dei due compiici, non ha uno scrupolo sull'obbrobrio dell'azione, non un'incertezza riguardo alla docilità delle due donne, non una vera passione di avaro che tremi di commozione in faccia all'oro o qualche altro vizio cui quell'oro sia necessario. Non mercanteggia, non si accanisce sulla somma, non sdrucciola sulla lubricità della scena, non si diverte della scemp
ienza, caricatura non ritratto di frate. L'odioso in lui toglie il vero. Come frate corrotto ha poca ipocrisia, come uomo ipocrita non abbastanza corruzione, giacchè le sue azioni non ha
dio e il suo disprezzo per il clero, guastando
Principe gli ritornano alla memoria; invece di compiacersi in lui come ogni artista si compiace creando, egli si diverte a odiarlo, a renderlo più brutto, facend
bbastanza viva, ma eccessivamente giocosa, Callimaco vestito da gaglioffo e fingendosi mezzo ubbriaco, si fa sorpr
artisti e di signori, di gentildonne e di monsignori che non domandano di credere ma di ridere, non vogliono la verità ma la baia; l'esagerazione e l'inverosimiglianza in questo caso sono redente dalla arguzia di un motto, dalla scabrosità di una situazione, dall'arditezza di una proposta. La novella si ode e non si vede. Per essere ricordata le basta un razzo finale in una risposta, l'os
ansigendo fra le novelle del trecento e le commedie romane, mirando solamente a divertirsi e a divertire. Non volle e non fece pittura di società. Solo Frà Timoteo lo trasse più lungi che non avrebbe
'azione contro i vecchi precetti rettorici, Frà Timoteo pronuncia raccontando argutamente a sè stesso che cosa faranno quella notte tutti i personagg
ncora un po' nervosa. Nicia, che le si accosta tutto ilare, è respinto da un gesto violento di disprezzo che quasi lo rovescia. Qui Macchiavelli è davvero grande artista. La ribellione, l'odio al vecchio rispettato sino allora, che scoppiano improvvisamente, inconsciamente, nel cuore di Lucrezia e si condensano per l'i
o con festa da tutta la famiglia, e
atura senza passare per la satira. Perchè satira fosse, le occorrerebbe quella coscienza che manca nell'autore e negli attori. Recentemente Ruggero Bonghi volle vedervi la condizione e il concetto che allora si aveva della famiglia; ma la società del cinquecento, priva di coscienza politica e licenziosa di costumi, non arrivava a questa empietà morale, o almeno le classi medie cui apparteneva il Macchiavelli e che avrebbe inteso dipingere nella commedia, non erano così. Certamente non vi sono nella Mandragola intenzioni morali malgrado alcune critiche alte e minutissime nel personaggio di Frà Timoteo, ma nessun severo o amaro proposito presiedette alla sua concezione. Essa non è la riflessione d'un grande spirito o l'opera inconscia del genio che scolpisce sè stesso e il propri
capolavori solitari sono impossibili e inconcepibili. Così quando Machiavelli ritentò la prova nella Clizia abbandonando l'ispirazione del Boccaccio per l'imitazione di Plauto, secondo
ore quello dell'Ambizione, tutti egualmente inquinati di ragionamenti teoretici; invece i suoi Canti Carnascialeschi richiamano involontariamente alla memoria quelli di Lorenzo il Magnifico, per far poi nel confronto ben magra figura. La novella di Belfegor arcidiavolo, nella quale la solita critica volle vedere una satira di Macchiavelli ai tormenti ricevuti dalla mog
non profetizza tutta la scienza filologica come vorrebbe il Villari,